Fano (PU) – C’è chi la chiama fanesità, chi fanesitudine, chi fanitudine; c’è anche chi, poco comprendendola e con una certa puzza al naso, la chiama provincialismo o ritiene che sia solo quel rimpianto “per i bei tempi andati” che fa ricordare belle anche le cose brutte solo perché “allora” si era più giovani. C’è anche questo nella fanesità, indubbiamente, ma ci sono tante altre cose che rendono quasi impossibile descriverla in poche parole se non queste: “amore per la propria città”. C’è chi le adopera per metter le mani sulla fanesità, per mascherare come amore per la città solo l’amore per il proprio spesso smisurato ego; c’è chi le usa per contrabbandare idee e progetti che nulla hanno a che vedere con l’amore per Fano, che deve andare al passo con i tempi ma senza dimenticare le sue radici.
Spesso c’è più fanesità in chi vive a Fano da poco tempo o è di prima generazione (quanti pensavano di fermarsi per poco e poi si stabiliscono defi¬nitivamente perché s’innamorano di Fano!) che in certi che si definiscono fanesi doc. Due cose mi hanno colpito recentemente: da una parte certi insegnanti fanesi che ancora sospirano per lo pseudo carnevale di Dario Fo e certi suoi “ammaestramenti” gnostico-cabalistici ai bambini (come ha sottolineato in una conferenza a Fano il giornalista e scrittore Davide Gasparini); dall’altra la notizia di un maestro napoletano che ad i suoi alunni fa “tradurre” in dialetto fanese frasi in italiano. Spero che d’ora in avanti vi siano maestri che facciano leggere ai bambini non i vangeli apocrifi ma delle pagine di Fabio Tombari. Da “I Mesi” che, grazie alla bella iniziativa di Sergio Giovanelli e dell’associazione “Fanitudine”, sono in tutte le nostre biblioteche scolastiche; o, se si vogliono far rivivere le atmosfere di una volta, pagine di “Frusaglia”, il capolavoro del nostro grande scrittore, che possono anche far riscoprire antichi mestieri.
Come quella che inizia così: “Nella coffa riluceva un tesoro fresco; le donne battevano i panni, il vecchio di prima, rammendata la sciabica, aveva preso la randa, e sdruciva. Si udiva il kan dell’ascia, il ciac ciac delle comari di Falstaff; dalla calle, il lezzo di prima. Un gran fumo nero s’alzava dalla concia. Sullo squero un carpentiere ribadiva i chiodi su una croce di salice, qua si mollava il groppo d’una cima. Il fumo nero, duro ad alzarsi, si torceva, su pei paterassi, con fiamme d’ inferno tremende. Qualche bambino sozzo e carino rideva di gusto; una biondi¬na magrolina cuciva in bianco, lassù fra garofani…”