

Roma – Un regalo placcato oro, una stretta di mano nello Studio Ovale e un annuncio da cento miliardi: così Tim Cook tenta di disinnescare l’ennesima minaccia di Donald Trump contro le aziende tech che “non costruiscono i loro dannati computer in America”. Il CEO di Apple ha promesso nuovi investimenti negli Stati Uniti, una maxi operazione patriottica che profuma però di compromesso più che di rivoluzione industriale.
Apple spenderà 100 miliardi di dollari in patria per placare l’ira del presidente, che minaccia dazi del 100% sui semiconduttori esteri e sogna un iPhone assemblato in Kentucky. E invece no: il vetro sì, ma l’iPhone continuerà a nascere in Asia. Niente cambio di paradigma, solo un lifting alla filiera. Cook ha assicurato che Apple collaborerà con aziende americane come Broadcom e Amkor per sviluppare una supply chain tutta a stelle e strisce. Promette pure di essere il “primo e più grande cliente” della Taiwan Semiconductor Manufacturing Company in Arizona, dove si produrranno 19 miliardi di chip. Ma l’ombra della Cina resta dominante: Apple continua a produrre lì (e in India e in Vietnam), mentre negli Stati Uniti non ha mai realizzato un singolo prodotto di punta. E probabilmente non inizierà domani.
Apple sa che ricreare negli USA la manodopera e la competenza tecnica asiatiche costerebbe un occhio della testa. Secondo TechInsights, un iPhone prodotto interamente in patria costerebbe più di 2.000 dollari.
E poi c’è un dettaglio da non trascurare: gli annunci Apple suonano sempre bene, ma non sempre si traducono in realtà. Nel 2018 Cook aveva promesso 350 miliardi di investimenti e un nuovo campus. Il campus non c’è, e la fabbrica in Texas inaugurata con tanto di passerella presidenziale produceva già da anni. Quando poi è servito, la produzione è migrata in Thailandia. I 500 miliardi annunciati da Apple all’inizio dell’anno includevano in gran parte investimenti già previsti. Solo 39 miliardi erano realmente nuovi. Questi 100 miliardi extra, secondo l’analista Gene Munster sentito dal New York Times, sono “un aumento misurabile”, ma restano una toppa su un buco molto più ampio: il teorema dell’indipendenza tecnologica americana.
Tim Cook intanto corteggia Trump ma resta fedele alla geografia economica globale. Non ha seguito la delegazione presidenziale in Arabia Saudita, e Trump ha notato l’assenza: “Tim non è qui, ma Jensen Huang sì”. Ovvero il CEO di Nvidia, oggi ben più allineato al nuovo corso.