Fausto Antonioni: “Il cibo nelle mense scolastiche deve essere a misura di bambino”
- 11 Marzo 2016
Fano (PU) – “Succede con una certa periodicità che gruppi di genitori si lamentino per il servizio di mensa scolastica. E’ successo con le amministrazioni di diverso colore politico. Ma Fano ha una tradizione di buon funzionamento e di attenzione alla qualità del servizio che è stata mantenuta e talvolta accresciuta qualsiasi fossero le modalità di gestione”. Ad intervenire è Fausto Antonioni ex dirigente scolastico. “Oltre allo scrupolo con cui vengono scelte le materie prime (con ampio uso del biologico) c’è attenzione ad un menu vario distribuito nell’arco di quattro settimane e definito da esperti che tengono conto delle esigenze nutrizionali nelle diverse età dei bambini sia dal punto di vista della quantità che delle proposte. A tutto questo fa riscontro (non credo siano cambiate le cose dal tempo in cui dirigevo scuole dell’infanzia e primarie a tempo pieno a Fano) un approccio democratico alla loro gestione che si avvale della partecipazione dei genitori e dei docenti con la presenza di appositi comitati che possono interloquire proficuamente con la struttura amministrativa comunale per risolvere tempestivamente i problemi”.
“Le istituzioni educative dai nidi alle scuole primarie a tempo pieno sono un caleidoscopio del diverso rapporto che i bambini intrattengono con il cibo nelle varie età e il rifiuto di mangiare, come capita sovente per alcuni di loro, non va visto solo come non gradimento di singole proposte ma come la percezione di un mal funzionamento del contesto nel quale il cibo viene consumato. Nei nidi, ad esempio, il cibo contiene una componente affettiva che è parte integrante delle pratiche di cura che contrassegnano la giornata e in cui la buona relazione con la ‘tata’ assume una importanza fondamentale. La ‘tata’ diventa un sostituto della madre della quale assume modalità specifiche di somministrazione attraverso l’imboccamento diretto quando i bambini non sono ancora in grado di farlo da soli. Mano a mano che i bambini crescono la relazione individuale si attenua in favore di modi più ‘sociali’ in cui non c’è più solo la ‘tata’ o il proprio insegnante che presiede il ‘rituale’ del pranzo ma i compagni, gli altri insegnanti, fino alle persone addette alla somministrazione del cibo che avviene con modalità in cui il sistema di relazioni assume caratteri meno esclusivi e più condivisi fino ad arrivare alla auspicabile condizione in cui sono i bambini stessi a provvedere alla preparazione della mensa, alla somministrazione e quindi al consumo del cibo”.
“Il fenomeno dei bambini che a scuola non mangiano o rifiutano il cibo saltuariamente va quindi ricondotto ad una lettura più attenta in cui il non gradimento di alcuni cibi non è solo conseguenza di una diversità tra le abitudini alimentari acquisite in famiglia rispetto al menu della scuola, ma il segno di un percorso educativo non ancora giunto a compimento in cui l’affrancamento dal cibo domestico è anche il risultato di una autonomia finalmente raggiunta che rende disponibili a nuove sperimentazioni del gusto”.
“Sui bambini che non mangiano occorre interrogarci in modo non banale. Gli stessi genitori che segnalano i casi di rifiuto manifestano una apprensione che, nell’enfatizzare il fenomeno, forse mostra che non sono pronti ad accompagnare i figli verso quell’autonomia per cui, in talune circostanze, il cibo non è più il mediatore affettivo con la madre o la famiglia ma luogo di relazioni sociali più ampie ed appaganti”.
“Sono perciò propenso a pensare che occorre prestare attenzione ai casi individuali di rifiuto del cibo, posto che le premesse di funzionalità ed efficienza del servizio lasciano percepire un fenomeno di dimensioni del tutto fisiologiche. Penso anche che ciò che taluni genitori segnalano sia da affrontare in termini di rassicurazione delle loro apprensioni attraverso un dialogo di cui le singole scuole possono farsi carico”.
“Oltre ad una lettura psicologica segnalerei anche un approccio pedagogico particolarmente utile per delineare un punto di incontro tra scuola, bambini e genitori attraverso uno spostamento di attenzione dal cibo che nutre il corpo al cibo che nutre la mente poiché le istituzioni educative dal nido alla scuola primaria hanno come scopo di accompagnare i soggetti lungo un percorso di maturazione in cui l’obiettivo è la loro crescita intellettuale, emotiva, sociale”.
“Come interconnettere queste due dimensioni che nell’organizzazione scolastica sembrano spesso troppo separate? Gli insegnanti stessi, specie nella scuola primaria a tempo pieno, vivono male il tempo della mensa considerandolo un tempo ‘vuoto’ per la finalità loro affidata di nutrire la mente, quasi una mortificazione della loro professionalità. Lo tollerano e talvolta lo considerano utile, insieme al tempo dell’interscuola, per ricaricare le ‘batterie’ dei bambini per l’attività pomeridiana ma lo pensano come momento distinto non connesso con la funzione più propriamente educativa.
“Questo aspetto è stato oggetto di lunghe e approfondite discussioni in anni passati fino a quando i ‘Programmi della scuola elementare’ del 1985 e gli ‘Orientamenti della scuola dell’infanzia’ del 1991 non fornirono una bella definizione della scuola come ‘luogo di vita e di apprendimento’ riconnettendo le due dimensioni dal cui inveramento pedagogico scaturisce la qualità della sua funzione. Non contento per via di quella congiunzione (e) che non congiunge abbastanza se non sul piano linguistico, ho modificato la definizione sostituendo ‘e’ con ‘per’ sembrandomi necessario stabilire un nesso di causalità tra ‘vita’ e ‘apprendimento’ per cui ho sempre proposto ai miei docenti di definire la scuola come ‘luogo di vita per l’apprendimento’ da cui discende che non solo ogni momento della scuola o è vita o non si apprende, ma anche che ogni momento della scuola è aperto all’apprendimento solo e solo se si propone agli allievi (non solo fino alla scuola primaria, ma soprattutto nelle scuole secondarie dove questa visione è ampiamente latitante…) come luogo di vita. Sorvolo, non volendo scrivere un saggio di pedagogia, sulle benefiche conseguenze che sul piano metodologico e organizzativo tutto questo comporterebbe per la scuola poiché si tratta di un approccio ampiamente presente nelle ‘Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione’ (2012) a cui rimando”.
“Ad esempio, il tempo della mensa e quello dell’interscuola diventerebbero ‘oggetti culturali’ su cui investire in termini didattici. Ma c’è di più: nel tempo in cui Fano era ‘La città dei bambini’ e, con un fervore ormai sconosciuto, i bambini venivano chiamati a dire la loro su ogni aspetto della vita che li riguardasse, si scoprì che avevano idee chiare su molte cose, compresa la scuola”.
“Mi colpì allora un bambino (o bambina) della scuola elementare che scrisse che per lui o lei la scuola che avrebbe voluto frequentare era quella in cui lo studio occupasse il tempo dell’intervallo (un quarto d’ora!) e tutto il resto fosse dedicato al gioco. Una affermazione ben più carica di conseguenze, se venisse attuata, dell’invenzione della parola ‘petaloso’ per cui è diventato famoso il bambino ferrarese coccolato da tutta l’Italia; solo che qui l’Accademia della Crusca non può rilasciare alcuna autorizzazione”.
“Quel bambino denunciava la insostenibilità di una scuola in cui l’apprendere era una fatica perché non passava attraverso i canali del gioco che per lui/lei è vitale. Non è difficile capire che a fare quella connessione tra vita e apprendimento sono i bambini stessi e che ce la chiedono ogni volta che è loro concesso”.
“Ad esempio dedicandosi alla gestione del momento della mensa sulla quale i bambini espressero idee molto chiare. Per loro, a differenza di quello che si può pensare, mangiare è una pratica di vita molto importante, è un momento sociale da condividere con i compagni e con gli adulti, che ha bisogno di un tempo dilatato perché possa comprendere il momento dell’allestimento, delle pratiche preparatorie, della distribuzione del cibo (alla cui scelta vorrebbero partecipare). L’attenzione al ‘contesto’ è forte: vorrebbero un locale più piccolo (magari la stessa aula, se fosse resa più facilmente destrutturabile), vorrebbero servire ai tavoli, chiacchierare con i compagni mentre mangiano e avere una musica di sottofondo che li aiuti ad allentare le tensioni. Tutt’altra cosa dalle mense vocianti in cui il cibo viene consumato entro un tempo ristretto per consentire i turni tra le classi. Se fosse possibile avvicinare i bambini alla conoscenza dei prodotti utilizzati, alla loro combinazione per dare forma e gusto al cibo, alle proprietà che ciascun componente contiene e come questi interferiscono con la dimensione biologica del loro corpo… c’è quanto basta per costruire metà curricolo di scienze”.
“Così si realizzerebbe quel percorso di autonomia che riconcilia i bambini con il cibo della mensa, che è necessariamente diverso da quello della mamma ma che proprio per questo è oggetto di scoperta e frontiera di un gusto nuovo. Chi non mangerebbe in una mensa così? Che si caricherebbe anche di un valore etico poiché la parola ‘mensa’, come ci ricorda Enzo Bianchi (Priore della comunità monastica di Bose e dunque esperto di … ‘mense’!) deriva dal latino ‘mensura’ cioè ‘misura’ dove il cibo che è dono di Dio si dà a “misura” di ciò che a ciascuno serve in modo da non sprecarlo”.